Ogni volta che vedo apparire un
nuovo manuale “tantrico” in libreria, mi convinco sempre più che stiamo
sprofondando davvero nell’oscurità del Kali-Yuga, l’epoca di massima decadenza
umana sotto il segno della terribile dea Kali. Come indicato negli antichi
testi indiani, sarebbe infatti questo il periodo in cui all’uomo non è concessa
altra via di conoscenza e riscatto fuorché mediante il suo stesso corpo, dal
momento che le condizioni opportune per valorizzare le risorse intellettuali o
meditative si sarebbero storicamente estinte. Al contrario, le forze
primordiali, istintive, animalesche, sarebbero completamente sciolte da
qualsiasi principio di determinatezza, pronte per essere affrontate secondo la
formula del “cavalcare la tigre”: assumere e trasformare gli aspetti nocivi in
positivi, fare del veleno un farmaco. Con tutte le inevitabili conseguenze che
questa massima presuppone: vincere il disgusto, infrangere la legge, spingersi
al di là del lecito, purché non ci si lasci sopraffare dalla lussuria. Shiva è
pronto a punire con la follia chi trasforma il mezzo in fine.
Prima di divenire un fenomeno
editoriale al limite del kitsch, il Tantra – che alla lettera significa
“sviluppo”, “es-posizione” - ha rappresentato però una delle correnti più
rivoluzionarie della controcultura indiana. Rielaborando in modo sincretico
aspetti della spiritualità proto-australoide, dravidica e ariana, a cavallo fra
il I e il VI secolo d.C. è riuscito a minare l’ordine imperante delle caste, a
restituire dignità sociale alla donna, ma soprattutto a liberare l’uomo dagli
esiti mortificanti delle pratiche di trascendenza. Il tutto, attraverso la
sottomissione del caotico pantheon indiano alla figura originaria di Shiva, il
dio senza natali, selvaggio e mutevole, ai limiti dell’ermafroditismo,
inestricabilmente legato al suo femminino dormiente, l’energia shaktika.
Il
tantrismo non è dunque comprensibile senza penetrare il complesso rapporto
d’interdipendenza della coppia divina Shiva-Shakti, che sul piano metafisico
simbolizzano in realtà l’essere e il divenire, il principio determinante e la
potenza agente. Contro ogni forma di culto esteriore, ritualismo o meditazione
alienante, il tantra fa del corpo il tempio immanente della divinità.
Scavalcandone a pié pari l’intricatissima cosmologia e la meticolosa tecnica
erotica, almeno per il momento, non è però possibile sorvolare sul principio che maggiormente lo distanzia dall'approccio etico e gnoseologico occidentale: l’estasi, l’uscita da sé. L’adepto tantrico non deve temere di
smarrire il proprio io, o di annullarlo, ma deve perseguire proprio quest’obiettivo.
Usando il corpo, e nella fattispecie il potere di un orgasmo oltremodo dilatato, al fine di liberarsi dalla dimensione spazio-temporale, possiede già in sé la chiave
per accedere allo stato divino. In ultima istanza, un Io cosmico (ma questo stesso linguaggio rivela la sua intrinseca limitatezza) che da sempre
abita in noi, vibra in noi come nella più infima particella dell’universo, ma
che non riusciamo ad avvertire per via delle onde disturbanti del manas (inteso
come qualunque tipo di supporto/organo percettivo l’epigenetica voglia di volta
in volta dipingerci) in rapporto ai tanmatra, le potenze qualificanti della
realtà sensibile.
Anziché accordarci all’universo, finiamo inevitabilmente per
ritagliarlo in un mondo, per rappresentarlo dalla prospettiva limitata dell’io
individuale. Troviamo allora il modo di mettere il manas in epoché, in
sospensione, e insieme a William Blake potremo finalmente dire: “ogni cosa
apparirebbe come’è: infinita”. Purtroppo far atrofizzare il cervello non
funziona.